Festival dei diritti umani, all’Orientale di Napoli l’incontro con il regista curdo Veysi Altay.

“Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non farete nulla per cambiarla”, così ammoniva Martin Luther King, leader del movimento per i diritti civili degli afroamericani. Rilievo, quest’ultimo, che di certo non può essere mosso a Veysi Altay, regista e attivista curdo che proprio per il suo coraggioso e  indefesso impegno nel documentare i soprusi e le vessazioni di cui è vittima il suo popolo è già stato condannato in primo grado a 4 anni di detenzione per propaganda terroristica e rischia di finire i suoi giorni in una cella di una prigione se le condanne dovessero essere confermate in Appello.

La sua unica colpa agli occhi del nuovo sultano di Istanbul, Recep Tayyip Erdogan, è quella di aver denunciato gli esecrandi delitti di cui si è macchiato il regime turco, come, in particolare, le sparizioni di tanti attivisti curdi  per mano del suo esercito nel film “Il pozzo”, oltre ad aver documentato momenti epici della storia curda come la strenua difesa, da parte di uomini e donne, di Kobane, nella Siria del Nord, nella regione detta del Rojava, vero e proprio argine che ha frenato l’avanzata delle milizie dell’ISIS. E in una sorta di ideale staffetta con il Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, sua precedente tappa, Veysi Altay è stato graditissimo ospite del Laboratorio di Produzione Audiovisive, cinematografiche e teatrali, diretto dal Prof. Francesco Giordano e attivato presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università “L’Orientale” di Napoli,  in occasione della proiezione del suo ultimo documentario “Nujin-La vita nuova”.

Un incontro con una valenza che è andata oltre quella meramente formativa dal momento che ha contribuito a dare concretezza a quella che con un’icastica immagine è stata ribattezzata “scorta mediatica”, ossia il controllo da remoto di un soggetto perseguitato tenendo sempre acceso un faro su di lui e intrecciando legami di solidarietà e amicizia per preservarlo dal rischio di ritorsioni o, peggio, di sparizione nel nulla visto che l’oblio, la solitudine e il silenzio mediatico sono i più spietati sicari di qualsiasi regime autocratico.  Fotografo, regista e attivista dei diritti umani, Veys Altay è uno moderno Spartaco che usa l’unica arma veramente intelligente, la creatività artistica, per spezzare le catene con le quali il Leviatano con il fez tiene aggiogato il suo popolo. Ne è ulteriore prova proprio il documentario “Nujin-La nuova vita” in cui illumina le vicende di giovani donne curde strappate ai loro sogni per impugnare un fucile e contribuire così alla difesa della loro città, Kobane, assediata dagli tagliagole dell’ISIS; un affresco che non indulge nella crudezza visiva, con il clangore delle armi che rimane sullo sfondo, il che è straordinariamente consonante con il mood nel quale siamo immersi visto che per noi italiani gli orrori e le brutalità della guerra in Ucraina (ultimi in ordine di tempo, i civili inermi, anche bambini, di Bucha e Irpin torturati, stuprati e giustiziati con un colpo d’arma da fuoco alla nuca dalle forze armate russe) sono solo un’eco lontana. Del resto, i volti sorridenti e puliti di queste giovani combattenti curde, così come le scene di spensierata vita comunitaria promiscua come la preparazione, la consumazione di un pasto e i balli, fanno da contrappunto alle sporadiche immagini di guerra. Sequenze che non stridono ma  che svelano come al centro del documentario via sia una sorta di “guerra nella guerra”, quella personale delle giovani donne per riaffermare il loro ruolo da protagoniste nella società curda; quest’ultime, consapevoli di essere delle battistrada per le loro madri, nonne e casalinghe che non hanno potuto imbracciare un fucile e di essere quindi delle combattenti anche per la libertà delle donne curde, hanno ormai maturato la consapevolezza che grazie alla partecipazione alla resistenza armata contro i miliziani del Daesh, quando finalmente le armi taceranno, nulla sarà come prima:  ad attenderle al loro ritorno a casa, infatti, troveranno, appunto, una “nuova vita” di libertà e di pieno riconoscimento dei loro diritti e del loro ruolo sociale.

Ecco perché l’effetto che la visione di “Nujin-La vita nuova” sortisce nello spettatore è lo stesso di un idillio del genio di Recanati la cui lettura, secondo Francesco De Sanctis,  il padre della critica letteraria italiana, innesca un caleidoscopio di emozioni: “Non crede al progresso e te lo fa desiderare; non crede alla libertà e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E’ scettico e ti fa credente. Ha un così basso concetto dell’umanità e la sua anima alta, generosa e pura la onora e la nobilita. E mentre chiama e errore tutta la vita, non sai come, ti senti stringere a tutto ciò che nella vita è nobile e grande”. Anche per questo al termine della proiezione un caloroso applauso ha travolto Veysi Altay che poi si è generosamente concesso alla curiosità e alle domande degli studenti, di Valentina Ripa, docente dell’Università degli Studi di Salerno e componente del Direttivo del Festival dei Diritti umani di Napoli, della Prof.ssa Giuliana Del Pozzo e della giornalista Valentina Soria.  E’ dunque un protagonista d’eccezione della Settima Arte ad aver inaugurato la fase di promozione della cultura cinematografica attraverso la dinamica dell’incontro-lezione (incontri, laboratori, proiezioni, dibattiti e seminari di innovazione e sperimentazione per la promozione e la diffusione del cinema e del comparto audiovisivo) del Laboratorio diretto dal Prof. Francesco Giordano; una testimonianza di resistenza, personale e artistica, contro un genocidio in atto che ha ricordato agli studenti, attivamente partecipi al successivo dibattito ed emotivamente toccati dalla visione del documentario “Nujin-La nuova vita”, che il cinema non è solo tecnica, stile o i freddi numeri del box office ma è anche anima, cuore e voce di chi come Veysi Altay, incurante della propria incolumità nonché del rischio di languire in prigione, continua a utilizzare la macchina da presa come un megafono per denunciare i crimini di un regime, ancor più oppressivo in quanto brandisce anche la spada di una giustizia che si piega al suo volere e ai suoi diktat,  solo “per amore del suo popolo”, parafrasando il titolo della lettera pubblica con la quale un altro paladino della giustizia e della verità, quel Don Giuseppe Diana trucidato dalla barbarie camorristica, chiamava i suoi concittadini a un sussulto d’orgoglio civico e soprattutto all’impegno contro la violenza e la protervia del clan dei Casalesi.

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