Amianto, Procura chiede condanna a 23 anni e 11 mesi per Schmidheiny.

Il presidio in Piazza del Plebiscito, dinanzi alla sede della Prefettura, promosso da Cgil, Cisl, Uil, e dalla associazione 'Mai più Amianto', contro la sentenza Eternit emessa dalla Cassazione, Napoli, 22 novembre 2014. ANSA / CIRO FUSCO
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Al termine di un’ “udienza fiume” la Procura di Napoli ha chiesto 23 anni e 11 mesi di reclusione per l’imprenditore svizzero Stephan Ernest Schmidheiny, sotto processo davanti alla Corte di Assise di Napoli (seconda sezione, presidente Concetta Cristiano) per la morte di otto persone (sei operai e due familiari di laboratori) determinato, secondo i pm Giuliana Giuliano e Anna Frasca, dalle gravi malattie sviluppate per la prolungata esposizione all’amianto subìta non solo nello stabilimento Eternit di Bagnoli ma anche nelle loro abitazioni, dove venivano lavate le loro tute da lavoro.

Non solo. Ad un certo punto, sempre secondo i testimoni, i lavoratori erano costretti a coprirsi la bocca con i fazzoletti perché non venivano più fornite le mascherine. Secondo la testimonianza del fratello dell’imputato, inoltre, a casa Schmidheiny si parlava della nocività dell’amianto ma negli stabilimenti si continuava a trattarlo senza le dovute cautele e, soprattutto, insabbiando i possibili rischi a cui erano esposti i lavoratori.

I sostituti procuratori, nel formulare le richieste alla Corte, hanno escluso le aggravanti ma invece tenuto conto, tra l’altro, della condotta sprezzante nei confronti del “sistema giustizia” manifestata dall”imputato ed evidenziata nelle interviste ai media.

“Ciò che è emerso dalla lettura degli atti delinea chiaramente il quadro di una condotta di scellerato perseguimento del profitto”, ha detto l’avvocato Elena Bruno, legale dell’associazione ‘Mai Più Amianto’, costituitasi parte civile al processo in corso a Napoli che vede imputato l’imprenditore svizzero Stephan Ernest Schmidheiny per il quale la Procura di Napoli ha chiesto una condanna a 23 anni e 11 mesi di reclusione. Insieme con l’associazione si sono costituiti parte civile, tra gli altri, anche i sindacati e l’Osservatorio Nazionale Amianto (rappresentato dall’avvocato Flora Rosa Abate).

“Ciò di cui discutiamo oggi è di grande attualità – ha sottolineato l’avvocato Bruno – perchè riguarda la scelta fra salute e lavoro, scelta che auspico non debba più essere fatta da nessuno. Intanto mi auguro che sia fatta giustizia”.

Una testimonianza del fratello dell’imputato come anche quelle di alcuni lavoratori, sono state lette oggi dal pm Anna Frasca, durante la sua requisitoria che ha fatto seguito a quella della collega Giuliana Giuliano. Tra i documenti esposti, estratti dalle prove acquisite dal cosiddetto processo “Eternit uno”, oltre alle lettere riconducibili all’imputato, figura tra le altre, la testimonianza di un operaio che definì il reparto dove lavorava e dove l’amianto veniva trattato: “…il reparto della punizione”.

Nello stabilimento, secondo quanto emerso dagli atti ereditati dal primo procedimento giudiziario, a un certo punto l’amianto venne chiamato fibrocemento, secondo i pm in maniera tale da renderlo meno identificabile.

Ai dirigenti di stabilimento venne addirittura consegnato un vademecum per insegnare loro quali risposte fornire a eventuali domande dei sindacati e della stampa circa le modalità di trattamento dell’amianto. (ANSA)

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