Gratteri: credibilità magistratura al minimo storico

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Il procuratore della Repubblica del Tribunale di Napoli non è uno che lesina interventi pubblici: ha criticato i test psico-attitudinali, la stretta alle intercettazioni, l’abolizione dell’abuso d’ufficio, la riforma del ministro Nordio, il divieto di pubblicazione delle ordinanze sui giornali, solo per citarne alcuni.

Adesso, dal palco della seconda edizione di Capri D’Autore, ha sferzato l’intera categoria di appartenenza in quella che per certi versi è sembrata un’ultima chiamata al ravvedimento.

Che la considerazione dell’opinione pubblica nei confronti delle toghe non sia positiva è cosa nota e certificata da numeri, sondaggi oltre che da quel referendum abrogativo sulla responsabilità civile dei magistrati approvato nel 1987 dall’80% degli italiani e poi trasformato dal Parlamento in qualcosa di differente e più dolce.

Basti pensare poi alla politicizzazione di alcune fette della magistratura o alle oltre 30mila persone che dal 1991 a oggi sono state vittime di malagiustizia o ancora al miliardo di euro costato allo Stato per errori commessi delle toghe. Dati al ribasso, ma che rendono l’idea della portata del fenomeno.

Nicola Gratteri ha riportato alla luce il caso Palamara, che è esploso con fragore nel giugno del 2019. Questo laboratorio giudiziario ha coinvolto una serie di inchieste, nomine pilotate, l’uso di trojan per intercettazioni, dimissioni di cinque membri togati, e una tempesta mediatica senza precedenti.

Il procuratore ha anche citato il coinvolgimento del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Gratteri ha dichiarato: “Avevo suggerito che il Presidente della Repubblica convincesse i membri del Consiglio Superiore della Magistratura a dimettersi. Bisognava inviare un messaggio forte alla popolazione, dimostrando che si stava voltando pagina, che si stava facendo un taglio netto con il passato.” Secondo Gratteri, tale consiglio non è stato ascoltato, e il risultato è stato che “è passato il messaggio che si voleva tutelare una corporazione intenzionata a mantenere le proprie posizioni di potere. Questo atteggiamento ci ha resi più deboli, anche perché le fazioni interne alla magistratura sono ancora numerose.” Non è chiaro se le parole di Gratteri siano una critica diretta a Mattarella, ai membri del Csm, o a entrambi. Tuttavia, occorre ricordare, per amore della precisione storica, che all’epoca il Presidente della Repubblica, in qualità di Presidente del Csm, tenne un discorso molto severo durante un Plenum straordinario.

In quella sede, Mattarella parlò di un “quadro sconcertante e inaccettabile” e di “conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza dell’intero Ordine Giudiziario,” avvertendo che questi eventi minano “la credibilità e la capacità di riscuotere fiducia, indispensabili al sistema costituzionale e alla vita della Repubblica.” Pertanto, le dure parole di Gratteri sembrano essere un monito riguardo alla necessità di un intervento deciso e coraggioso per risolvere una situazione che mina i fondamenti stessi della giustizia e della democrazia in Italia. La complessità del caso Palamara e le sue ripercussioni mostrano quanto sia importante mantenere l’integrità e la fiducia nelle istituzioni giudiziarie, per evitare che la sfiducia e il discredito prevalgano, indebolendo l’intero sistema giuridico e costituzionale del paese.

Il discorso pronunciato fu impeccabile e ricevette unanime consenso, inclusa l’approvazione da parte dei magistrati. Il problema generatosi a causa del correntismo all’interno della magistratura e del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm) era stato già evidenziato in passato da vari Presidenti della Repubblica, tra cui Pertini, Cossiga, Scalfaro, Ciampi e Napolitano.

Tuttavia, nessuno lo aveva mai affrontato con tanta rigidezza e determinazione come in quella circostanza. Nonostante fosse trascorso un lustro, secondo il parere di Nicola Gratteri, il caso Palamara, anziché rappresentare un’opportunità per una decisa svolta riguardante la reputazione e l’integrità dei magistrati, si era trasformato in un emblema di immobilismo e di protezione autoreferenziale all’interno dell’élite giudiziaria. In altre parole, si era verificato l’opposto di quanto auspicato; si è assistito a un comportamento di stampo corporativo, in cui “cane non mangia cane”, ovvero i magistrati tendono a non punire severamente i propri membri, perpetuando una situazione di stallo. Le esortazioni dei precedenti Presidenti della Repubblica, quindi, sono rimaste inascoltate all’epoca così come continuano a essere ignorate ancora oggi, evidenziando una stagnazione evidente nella risoluzione dei problemi interni alla magistratura. Questo riflette un’amara constatazione sulla difficoltà di avviare riforme efficaci in un settore così fondamentale per la democrazia e la giustizia del paese.

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