L’odissea di un malato oncologico al Pascale.

Egregio Presidente Prof. De Luca,
premesso che l’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione G. Pascale di Napoli è rinomato per le sue eccellenze professionali, apprezzato polo oncologico d’eccellenza di tutto il Sud Italia, frequentato da un’utenza che parte perfino da Sicilia e Calabria, è considerato – come riportato dal sito dello stesso Istituto – come: “… un Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico dove si coniugano attività di ricerca e prestazioni assistenziali di elevata qualità e complessità, tanto da costituire una fra le più significative realtà sanitarie del Sud Italia nel suo
campo. L’assistenza si caratterizza per un approccio alle patologie neoplastiche che integra: ricerca, prevenzione, cura e riabilitazione. Ed in tale contesto il paziente è posto al centro di un coordinato intervento multidisciplinare….””… l’Istituto riconosce la centralità del cittadino-utente quale titolare del diritto alla tutela della salute e nella fruizione dei servizi da esso offerti…”.

Presidente… quante belle parole!

Le stesse meriterebbero però di essere confermate da chi di fatto realmente fruisce dei servizi offerti dall’Istituto Pascale e che giornalmente vive l’odissea nei suoi padiglioni, dall’ingresso al cancello esterno fin dentro ai reparti: i pazienti.

Mi ritrovo, purtroppo, fra costoro e fra quanti per via delle gravi carenze sanitarie dei luoghi d’origine, sono costretti a lasciare la propria regione e volgere la propria meta sanitaria verso lidi cd. più attrezzati ed efficienti.

Appresa la notizia del cancro e non avendo strutture valide nella mia terra sono stato costretto ad indirizzarmi verso l’Istituto Tumori di Milano, eccellenza in tutti i sensi, a partire dall’organizzazione, alle apparecchiature, alle grandi professionalità ivi operanti per finire agli infermieri, talmente qualificati, che potrebbero validamente sostituire tanti medici. Dopo un anno e mezzo circa però, le spese per recarmi al Nord erano troppe ed insostenibili ed ho deciso di rivolgermi al “famigerato” Ospedale Pascale, cmq a 300 km da casa, tanto conosciuto per le eccellenze dei suoi medici e ricercatori.

Un malato oncologico è una persona con la spada di Damocle perennemente sul collo, un soggetto che fra una terapia e l’altra è devastato fisicamente e moralmente dai farmaci cd. salvavita somministratigli, un soggetto che il più delle volte non riesce neppure a camminare se non con l’ausilio di un accompagnatore, familiare o amico che sia.
Già il mio primo giorno, al Pascale, è stato traumatico: un serpentone umano di circa 300 persone, in fila con il caldo torrido (ma d’inverno è ancora peggio vista l’ubicazione dell’Istituto), in piedi, per 2-3 ore, in attesa di varcare la soglia del padiglione principale e ritirare un numerino, per poi accedere in struttura per le varie visite
e/o prenotazioni, dove, in base all’esame da fare ti rechi al piano utile, ritiri un altro numero e fai un’altra fila che va da mezz’ora a 2 ore almeno.

All’ingresso dei vari padiglioni vi sono le guardie giurate che gestiscono, per così dire, la fila di pazienti, facendoli incolonnare rigorosamente all’esterno ed in piedi, in balìa di vento e gelo o caldo torrido, dispensando dei numeri che serviranno per entrare ed invitando gli utenti, con modi il più delle volte tutt’altro che educati e gentili, alla calma e pazienza “…perchè ci vuole tempo, l’orario sulla prescrizione (07.30) è solo indicativo…”. E già questo mi ha portato a pensare fra me e me: ho cambiato l’oro (Milano) col piombo (Napoli).

All’inizio non dai peso a quelle parole ma, gradualmente e col tempo, comprendi che è un sistema fortemente disorganizzato dove la mano destra non sa ciò che fa la sinistra, e la cosa si ricalca pedissequamente anche nei reparti. ….UNA VERA ODISSEA.

Una volta entrato, il paziente si trova dinanzi al vaglio del Triage, dove più postazioni di infermieri verificano le prescrizioni ed i motivi del suo ingresso al Padiglione, smistando l’utenza ai corrispondenti reparti. Ebbene, anche al Triage spesso si incontra qualche infermiere, dove, nonostante l’autorizzazione del proprio oncologo ad essere
accompagnati in reparto da un familiare, fa mille difficoltà, dicendo che “ in ospedale può accedere solo il malato per via del Covid” ma, al contempo, non curante del fatto che lì fuori siamo ammucchiati come le bestie;
probabilmente il Covid attecchisce solo all’interno della struttura, chi sta al di fuori ne è esente! O altre volte si incontra qualche loro responsabile che pare la Gestapo e che si rivolge al tuo accompagnatore dicendo: “…le consiglio di prendere suo padre sotto braccio altrimenti potrei anche pensare che non ha bisogno di essere accompagnato e la faccio uscire fuori”.

Da personale sanitario tutto ci si può aspettare tranne che un atteggiamento così arrogante e soprattutto lesivo della dignità dell’essere umano, in questo caso del paziente che, pur di non dare l’idea agli altri di essere malato, cerca di camminare da solo anche se barcolla e non ci sente da un orecchio perché invaso dalla malattia. Certa gente dovrebbe cambiare mestiere poiché svilisce il nobile senso della sua professione. Per fortuna ci sono anche gli infermieri che di comprensione ed umanità ne hanno da vendere e parzialmente compensano le arroganze ed inutilità di tanti loro colleghi.
Ma non finisce qui.

Riesci finalmente a salire in reparto e corri a prendere l’ennesimo numeretto per fare l’ennesima fila, per i prelievi o il tampone prima di entrare nel reparto vero e proprio. Ti siedi su una delle sedie di ferro del corridoio ad attendere il tuo turno per il tampone ma gli infermieri – giustamente – ti dicono che non lo fanno, per disposizioni superiori, se non hanno l’ok dell’oncologo che ti ha in cura. Solitamente gli oncologi sono 3 con un turn over ogni
4 mesi, quindi se sei fortunato e capiti con uno dei tre che è davvero eccezionale o con l’altro che lo segue in professionalità e sensibilità verso i propri pazienti, il tampone lo fanno subito, altrimenti passano anche 2 ore.

Dopo aver fatto il tampone l’oncologo ordina la terapia presso la farmacia dell’ospedale, la quale per arrivare materialmente al paziente ci mette almeno un’altra ora e mezza, ed il povero paziente sta ad aspettare lì fuori o all’interno del reparto. Poi, quando qualcuno più sensibile si ricorda della sua presenza su una sedia del corridoio, allora lo chiamano e cominciano a somministrargli la terapia. Fra l’altro i pazienti che effettuano la chemioterapia
nel reparto da me frequentato, sono solo due al giorno, gli altri utenti/pazienti fanno o ricovero o pre-ricovero, quindi seguono totalmente un altro iter; è incomprensibile il motivo di tali lungaggini, specie per chi deve solo tamponarsi ed entrare per fare la terapia (sono solo 2).

Egregio Presidente, la presente vuole essere solo uno sfogo di chi “sopravvive giornalmente per vivere” e per rappresentare l’odissea alla quale è costretto il paziente oncologico all’Ospedale Pascale. Ogni santa volta che varca quella soglia è un’odissea che lo abbatte e logora dentro, tanto da farlo disperare per sé e per chi gli sta vicino e tanto da fargli pensare che se per curarsi e strappare qualche giorno in più alla vita deve subire questo forse… “è meglio morire”.

Caro Presidente De Luca, le eccellenze le abbiamo, è vero, ma evidentemente i concetti di organizzazione e gestione delle stesse non sono tutti uguali.

Dignità e vita camminano a braccetto e non dovrebbero in alcun modo e per nessun motivo essere mortificate!

Semplicemente un paziente oncologico
Carlo Bufano

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