Quando Marco Abbro si presentò negli uffici di Knowledge for Business con un barattolo pieno di microrganismi, nessuno sapeva ancora che in quelle spore dormienti c’era nascosta una rivoluzione. Una innovazione chiamata ScobySkin, fatta di fermentazioni pazienti, vasche silenziose e fogli trasparenti che crescono come per magia da una zuppa di zuccheri e lieviti.
«L’idea è nata circa otto anni fa – racconta oggi Marco. Avevo partecipato a un programma nell’ambito del quale ho cominciato a pensare alla possibilità di trasformare i batteri in produttori di materiale. Era l’inizio di quella che oggi chiamiamo biofabbricazione».
Lui, biologo atipico e sperimentatore ostinato, non si è limitato alla teoria. Ha portato il suo barattolo nei FabLab, nei laboratori universitari, nelle cucine di casa. Assieme al professor Paolo Netti e a una piccola comunità di innovatori tra Napoli e Cava de’ Tirreni, ha iniziato a osservare, studiare, provare. L’obiettivo era audace: far crescere un materiale biologico, resistente, versatile, ma soprattutto sostenibile. Un’alternativa alle plastiche, alle pelli, ai tessuti industriali. Qualcosa che non solo non danneggiasse l’ambiente, ma che potesse addirittura nascere dai suoi scarti.
«Oggi abbiamo uno spazio nostro, a Villa Literno, dove la produzione avviene in vasche di fermentazione, con un processo completamente bio-based».
ScobySkin è una membrana prodotta da batteri e lieviti in un brodo zuccherino, spesso arricchito da scarti di frutta delle produzioni locali. Un sottile foglio di nanocellulosa purissima, che viene raccolto, trattato e trasformato in un tessuto flessibile, resistente, elegante. Perfetto per il design e la moda. A quel primo barattolo, Knowledge for Business ha risposto con visione. È nata così la collaborazione con TecUp, società partecipata che si occupa oggi della valorizzazione industriale del materiale.
«Quando abbiamo incontrato Marco – racconta Francesca Cocco, responsabile marketing strategico di TecUp – stavamo facendo un corso di accelerazione per idee d’impresa. La sua era ancora un’idea embrionale, ma ci è sembrata da subito potente, poetica, rivoluzionaria. Da lì abbiamo iniziato un percorso di ricerca con diverse università, istituti del CNR e partner industriali, per arrivare a standardizzare il processo produttivo».
E non è stato semplice. «Pensare di fare industria partendo da un processo biologico è visionario – continua Francesca. Un batterio non si comporta come una macchina. Ogni lotto è diverso, ogni variabile conta. Però siamo riusciti, senza alcuna modifica genetica, ad “addestrare” i nostri microrganismi. Oggi il processo è stabile, scalabile, ripetibile».
La cellulosa prodotta da questi microrganismi è simile a quella degli alberi, ma non comporta alcuna deforestazione. Le vasche di fermentazione sono come allevamenti di invisibili bachi da seta, che filano fibre sottilissime, intrecciandole. Il risultato? Un materiale che può diventare accessorio, tessuto, persino ornamento. Nel progetto con il Teatro San Carlo sono stati realizzati gioielli scenici: corone, tiare, accessori dorati che hanno calcato il palcoscenico con una presenza monumentale».
ScobySkin si cuce bene, si lascia stampare, tagliare a laser, modellare. Al tatto ricorda la pelle, ma non lo è. «Il nostro è un tessuto biologico che ha una sua identità». La filiera di ScobySkin è corta, pulita, locale. Laddove è possibile, vengono utilizzati scarti frutticoli, come quelli delle lavorazioni agricole. Tutto il processo è food grade: nulla di chimico, nulla di tossico. E la biodegradabilità è totale.