“La mia pizza gourmet? Ha radici antiche. La prima ricetta è la pizza del ‘700. Agli albori – spiega lo chef Giuseppe Vesi – la farina raffinata non esisteva, perché non esistevano i molini a cilindro, ma solo le macine a pietra. Per cui, per riprodurre quei sapori originali bisogna necessariamente utilizzare una farina non raffinata, quella che uso oggi. Questo tipo di farina, la base per ottenere una pizza salutare e gustosa, è un po’ più grossolana di quella macinata a cilindri, perché i frammenti sono di dimensioni meno regolari. In generale è più saporita, più nutriente e più digeribile. Questo accade perché la farina macinata a pietra mantiene intatte tutte le proprietà benefiche del chicco e tutti i suoi nutrienti. Ma non è solo una questione di benefici. Infatti, la presenza di queste proprietà è capace di influenzare perfino il gusto e il profumo della farina stessa, e di dare forza e ricchezza diverse. E i nostri avi lo sapevano bene. L’innovazione ‘gourmand’ è stata introdurre tanti topping gradevoli, originale e attuali”. E proprio come mani che affondano nella farina tornando indietro nel tempo la storia della pizza affascina anche per tanti altri aspetti. Perché il disco di pasta è nato e continua ad essere un prodotto per il popolo. Non a caso le prime versioni erano vendute ai passanti e il successo nelle vendite era decretato dai venditori ambulanti. Di questi sono arrivate fino a noi i campionari di “voci” che gridavano per strada, molte delle quali, riportate nel libro di Francesco de Buorcard Usi e costumi di Napoli: ad esempio ‘O tengo cavere e chino ‘alice. Si trattava di un calzone ripieno di alici. La datazione all’incirca di questo periodo di diffusione della pizza venduta per strada ce la da la moneta con cui si pagava. Infatti una delle voci era “‘Na pubbreca, ‘na pubbreca”, ad indicare il costo della mercanzia. E qui, senza dubbio, possiamo datare quella “voce” al 1700 e per tutto il secolo, perché la “pubblica” era la moneta di rame del regno di Napoli, in dialetto “pubbreca”, emessa a partire dal 1599, del valore di 1 tornese, che poi dal 1624 ebbe valore di 6 tornesi. I venditori ambulanti portavano la pizza in giro all’interno di una specie di “stufa”, detta trocchianiello. Sottobraccio l’ambulante portava ‘o lanzuno, un tavolino pieghevole che, alla bisogna, che veniva aperto e dove venivano appoggiate le stufe. La pizza poteva anche venire venduta a fette. L’amato disco di pasta era legato al mare e non a caso una delle più consumate pizze all’epoca era proprio la marinara, chiamata così perché consumata in grande quantità dai marinai di ritorno dalle loro uscite in barca. Ma un’altra versione vuole che, ancora i marinai e i portuali, si lamentassero presso un pizzaiolo del posto della mancanza di sapore. L’artigiano decise quindi allora di aggiungere dell’aglio a pezzetti; un’altra leggenda ne fa risalire l’origine ai primi decenni del 1700, come pasto gradito sì ai marinai, i quali, però, non solo la consumavano a terra, ma la preparavano anche a bordo delle navi. A volte, vi si aggiungevano anche acciughe o “cicinielli” e in seguito poi quando il pomodoro cominciò ad essere più usato anche sulle tavole dei ceti più umili la marinara diventò quella che conosciamo oggi. Una versione della pizza con ingredienti non di mare era la cosiddetta “mastunicola”. Anche qui ci sono tante varianti sulla sua nascita e sul nome, che sono svariate e piacevoli. La mastunicola era condita con olio extravergine di oliva o strutto, formaggio grattugiato e basilico, Nel tempo, nei secoli la pizza si è evoluta, anche quando sono cominciate a nascere le pizzerie. E allora tutti si sono potuti sedere al tavolo a mangiare. Resta il fatto che i napoletani per primi sono da sempre stati un popolo di buongustai.
Pizza, Giuseppe Vesi: la vera ricetta prevede farina macinata a pietra.
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